STATO: Il participio passato del verbo essere

Qual’è il participio passato del verbo essere?

…Stato

Lo sa anche mio figlio di dieci anni.

Ma allora capisco molte cose.

Ci stavo pensando questa mattina presto dopo aver letto un’intervista a Piacentini, il Commissario straordinario per l’Agenda digitale.

Ma allora sta tutto già all’origine. Come dire: le parole son fatte per raccontare le cose e quindi Stato è stato.

Se parliamo di cultura, stiamo parlando di semi.

Se parliamo di un errore culturale alla base di tutto, forse possiamo trovare anche il peccato originale di qualcosa che non va e vorremmo cambiare. Non vorrei dire che questo significa che basta cambiare una parola per cambiare la realtà. Anche perchè mio figlio, che ha solo dieci anni, potrebbe dire che trattasi di parola polisemica e che quindi il mio è un gioco linguistico.

Lo è ma, allo stesso tempo, è una realtà che appare in tutta la sua evidenza.

Torniamo a noi e a quello che vorrei dire.

Questo Stato (un participio passato con la S maiuscola) ci si presenta con questo nome ed ha imparato a rappresentarlo.

Capisco la sua avversione e fatica a confrontarsi con il futuro, la sua fatica ad essere presente.

Anche il futuro anteriore del verbo essere ha un tremendo sapore di passato “sarò stato”.

 

Ma soprattutto in questo gioco di parole, c’è una difficoltà culturale in più che sta nel “soggetto”.

Pensiamo – tutti noi italiani – che lo Stato sia da coniugare sempre con la terza persona singolare. È un altro… e questo forse è l’errore più grave.

Potremmo chiederci se vale anche per gli altri popoli, perché quando parliamo del rapporto tra di noi, stiamo parlando di popolo, della cultura del popolo.

Così mi vien da dire che lo Stato dovrebbe essere coniugato sempre con la prima persona plurale ma anche con quella singolare.

Quel francese disse “lo Stato sono io” perché voleva affermarne il dominio, questi italiani, se vogliono recuperare la strada verso il futuro, devono e possono iniziare a dire “anche io sono lo Stato”. Come dire… non domandarsi che cosa può fare per me ma cosa posso fare per lui.

E anche questa frase la conosciamo ma non fa parte della nostra cultura. Non è nostra. Ma se ci piace, può diventarlo.

Allora Piacentini ha ragione. È essenzialmente una questione di cultura, che parte dall’io, anche banalmente per una ragione di convenienza, di necessità, di opportunità. Anche solo per affermare con orgoglio di essere parte. Di non essere soli in questo globo indistinto e, a volte, minaccioso, forse anche pericoloso.

E se noi siamo Stato o saremo Stato, e questo non è più un gigante cattivo con un timbro in una mano e l’altra protesa a chiedere, possiamo iniziare a cambiare. Prima dentro di noi che dentro di lui.

Perché fuori tutto sta cambiando a una velocità crescente. Siamo immersi nell’accelerazione che non consente nostalgie ma ancor meno ancoraggi. E se anche abbiamo un’ancora legata alla schiena dobbiamo tirala e trasformarla in un aratro per iniziare a seminare. Perché dietro alle nostre spalle c’è molto di buono ma così buono e vero e bello… che può dare ancora frutto.

Questo è un po’ lo spirito che dovremmo avere per costruire una proposta che, nel panorama delle cose che accadono nello Stato e nella società in cui viviamo, ancora non si vede. Anzi non c’è.

Chi si occupa di gestire questo elefante che prende il suo nome da un verbo coniugato al passato, pensa e parla e agisce ancora con paradigmi, parole, azioni che sono “passate” anzi forse, in alcuni casi, potremmo dire “trapassate”.

Allora bisogna inventarlo, anche se è un compito difficile e non sappiamo neppure dargli un nome.

Tutti questi io, che popolano la nostra terra, che hanno competenze, volontà e fantasia, possono fare un passo avanti e dire “ci sono”.

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