Come spesso accade, ci si preoccupa per prima cosa di curare gli effetti e le conseguenze della malattia. Così è stato per la crisi.
Ed è incredibile che l’Italia, la nazione forse più esposta per varie ragioni ai rischi della crisi, sia riuscita a sostenerne l’impatto. Sia sopravvissuta tanto a lungo, anche se pagando un prezzo elevato in termini di crescita della disuguaglianza.
La prima cura è stata quella di sanare alcune situazioni insostenibili, legate a una colpevole deriva di vent’anni di politica del consenso. C’è voluta una “risorsa esterna” e l’astensione o la mancata ingerenza per il periodo necessario a cambiare alcuni capisaldi e invertire alcune tendenze. È stata la cura da cavallo per il malato terminale. Era necessaria per invertire la rotta ma non poteva risolvere tutto. Ha colpito gli effetti e individuato e sanato le cause più evidenti, più pericolose, più immediate.
È stata dolorosa e costosa. A una cura così non avremmo retto se non ci fossero stati due eccezionali alleati a sostenerci.
Chi e che cosa ci ha sostenuti in questi anni?
La famiglia e il volontariato. Questi sono stati i due pilastri che hanno retto la debolezza dello stato sociale. Sono questi gli istituti che ancora adesso reggono l’equilibrio del sistema di welfare in Italia.
La famiglia è oggi un compensatore di reddito tra generazioni, offre i migliori servizi di conciliazione: è, quando presente, il vero nucleo sociale di riferimento per chi è in difficoltà.
Il mondo dell’associazionismo è il secondo vero pilastro dell’aiuto. Risponde ai bisogni di chi è in difficoltà e, allo stesso tempo, organizza e mette in relazione gli interessi e le volontà di cittadini che offrono risorse, tempo, competenze. Spesso non si comprende che il motore di questo fantastico mondo sta in una reciprocità che arricchisce tanto chi dona e chi opera quanto chi beneficia.
Accanto a questo mondo si è sviluppato, sempre più in questi anni di crisi, il “privato sociale”, ossia un’area variegata di imprese sociali che erogano servizi, spesso per conto della pubblica amministrazione ma sempre più con un’ottica sussidiaria. Queste imprese stanno cioè via via acquisendo autonomia e protagonismo nelle proprie iniziative e quindi diventano un attore autonomo e indipendente del welfare del futuro.
Ultimo arriva il pubblico. Non perché abbia fatto poco, anzi ha fatto molto. Ha retto la sfida della crisi. Sanità e assistenza sono lì nella loro dimensione a testimoniare quanto sia importante lo Stato. Però nei servizi di prossimità, nelle risorse dei comuni, si sono visti i tagli, le riorganizzazioni, le difficoltà di armonizzazione e talvolta le carenze di giustizia ed equità. Che non mancano anche a livello statale.
Ma la famiglia non sempre ci può essere. Se i nonni sono lontani o non ci sono più, chi andrà a prendere i miei figli a scuola mentre sono al lavoro?
Quando il volontariato non riesce a far fronte. Quando il servizio comunale è stato ridimensionato per problemi di bilancio. Quando… e lo Stato. Il Welfare state è in crisi, lo sanno anche i bambini.
Se il sistema ha retto, modificandosi e trasformandosi per rispondere e “curare” i sintomi, chiediamoci quali possono essere le cause della crisi e come dobbiamo cambiare il nostro sistema di welfare, cioè il nostro modo di essere società, per il futuro che abbiamo davanti.
Ci sono cioè anticorpi da tenere e rafforzare in queste ricette per sconfiggere la malattia?
La crisi è un sintomo o la malattia? Oppure è lei stessa la cura?
Forse lo “stare bene” è la sfida più importante, il settore più grande, il lavoro più gratificante…
Incominciare a “uscire dalla crisi” promuovendo i Talenti e puntando sulla “Riallocazione” di (almeno) una parte di quel “25%” di manifattura “emigrato/a all’estero …”(… se ne iniziava a parlare a Caorle nel settembre 2013 …)
Quanto, poi, alla “moralizzazione della politica” questa deve “uscire dalle secche” dell’immobilismo e dell’utopia …