Una crisi strutturale, per essere superata, richiede di cambiare alcuni principi su cui si basa. Il fatto che la crisi si attenui ma non si fermi, che si vedano segnali di ripresa molto deboli, nonostante ci siano fattori economici molto favorevoli (costo dell’energia, tassi di interesse…) ci fa capire che le soluzioni vanno cercate più in profondità e richiedono una trasformazione che, se non governata e gestita, sarà dolorosa e pericolosa per la pace sociale.
Normalmente i fattori di cambiamento sono presi come bersagli dalle categorie di chi viene colpito dalla crisi. Di qui la fortuna di chi propone soluzioni di conservazione e protezione. Queste però si scontrano con le regole che reggono un sistema così profondamente consolidato e connesso. La loro applicazione causerebbe una serie di problemi molto più gravi delle soluzioni. Queste proposte, pur velleitarie, trovano adesione e sostegno, perché si è interrotta, forse irrimediabilmente, la narrazione di “progresso” che ci ha accompagnati nell’epoca moderna.
Anche nella crisi, che è principalmente occidentale, se guardiamo diversi indicatori, molti elementi di progresso sono continuati. La popolazione è aumentata, l’aspettativa di vita cresciuta… Magari alcuni fattori ed iniziative economiche, politiche, sociali e culturali hanno spostato taluni equilibri nazionali, territoriali, settoriali.
Sono complessivamente molti gli indicatori positivi e meno quelli negativi. Allora la crisi è solo occidentale? Della classe media, sempre che noi si sappia cosa sia questa indistinta classe o categoria? No, perché un rallentamento e magari un arresto si sta presentando anche per quelle nazioni o aree emergenti che, nell’economia, hanno segnato quelle performance che hanno mantenuto la bilancia sul segno più.
C’è stato quindi un fenomeno di riallocazione ma a questo si aggiunge un elemento di fondo strutturale che riduce lo slancio e la crescita anche degli emergenti.
Un politico e imprenditore italiano disse che la crisi era un fenomeno psicologico e con questo pensava di arginare e stemperarne il significato. In realtà ne raddoppiava la gravità: infatti la psicologia collettiva somma gli aspetti concreti e razionali con quelli emotivi e irrazionali. La gente ha percepito che la crisi era il risultato di un cambiamento concreto che portava con sé anche un profondo malessere emotivo. E noi siamo ancora lì, incastrati nella crisi, colpiti da un cambiamento che investe entrambe le sfere della nostra vita.
Il punto di caduta emotivo – credo – sia dovuto all’enfasi che ha assunto la dimensione economica nella vita dei singoli e della collettività. Come dire: abbiamo identificato i beni con il bene. E paradossalmente i beni sono aumentati ma la percezione di valore degli stessi, legata al loro costo – valore economico – è diminuita.
L’esempio più evidente sono i prodotti dell’elettronica di consumo. Costano poco, in funzione di ciò che fanno, costano sempre di meno e permettono di fare di più. Ma vale anche per l’informatica, per le telecomunicazioni…
Quel quid pluris di valore dove finisce? È un valore ma in sé non è più essenzialmente e prevalentemente economico.
Quella maggior efficacia, introdotta dagli strumenti e dall’informatica, si è tradotta in una maggiore e migliore capacità di dare risposte in un tempo più ristretto… quindi la tecnologia genera un valore che non è solo economico.
Anche il trattore quando fu introdotto in agricoltura generò scompiglio e milioni di braccianti persero il lavoro. Il cambiamento però fu positivo, progressivo, veloce e le persone si ricollocarono. Visto nella contingenza e nel momento in cui avveniva, questo fenomeno fu disastroso. Leggendo “Furore” di Steinbach ci si accorge di quanto fu tremendo da un punto di vista sociale, personale…
E questi cambiamenti sono le “crisi” cioè momenti ove si concentra il cambiamento e dove le conseguenze sono numericamente e qualitativamente così significative che la vita di un gran numero di persone ne è sconvolta. Dove molti non ce la fanno. Dal loro punto di vista, la crisi è una sciagura ma da un punto di vista più ampio, distaccato e asettico, queste sono generatrici di maggior benessere. Più grano ad un prezzo più basso.
Lo stesso fenomeno si presenta in questa crisi e la cosa più importante è definire quali siano le strategie che ci consentiranno di uscirne, con uno scatto positivo, governando la trasformazione di quegli istituti irrinunciabili. Come preservare il benessere? I diritti? Come aumentarli?
La ricetta (che all’epoca dei trattori portò ad un esodo) si gioca tutta sul valore (specie quello non economico) che questa rivoluzione globale, tecnologica, di comunicazione ha generato e che ha bisogno di essere prima “reso evidente” e poi distribuito. L’economia tradizionale non lo rappresenta.
Non è detto nemmeno che il meccanismo economico sia il medium più adeguato e funzionale per la redistribuzione di quel valore.
A questo si aggiunge un fenomeno più recente che riguarda il rapporto tra crescita e lavoro. Ce ne eravamo già accorti, quando le cose andavano bene, che la crescita economica non era proporzionale o collegata direttamente ad una crescita dell’occupazione. Ce lo chiedevamo già prima della crisi perché migliori performance non generavano più lavoro. Le categorie di quantità e qualità avevano cambiato la loro proporzione relativa rispetto all’occupazione. Se aumentiamo la produttività, a parità di domanda, il lavoro richiesto diminuisce. Possiamo allora aumentare la domanda: più clienti accedono al mercato oppure possiamo far crescere le tipologie di bisogni. Su quest’ultimo versante il discorso si fa particolarmente interessante. Se tutti un giorno avremo la pancia piena, allora più persone andranno all’opera? Certo non è possibile rispondere alla complessità che si scatena con uno scenario del genere con semplificazioni che appaiono, nella migliore delle ipotesi, semplicistiche.
Il rasoio di Occam che dice che “la soluzione più semplice tende ad essere quella giusta“ non è un metodo da abbandonare, senza aver prima tentato di applicarlo scoprendo che può generare soluzioni interessanti e soprattutto percorribili.
Possiamo dire che l’evoluzione e transizione in atto cambierà radicalmente il rapporto delle persone rispetto al tempo e allo spazio. Per lo spazio, questo è già ampiamente avvenuto ma per il tempo ci dobbiamo attrezzare, anche culturalmente.
Le tecnologie hanno ridimensionato il significato e il valore del tempo. Risultati uguali o migliori si possono ottenere in un tempo più ridotto. Paradossalmente abbiamo la sensazione che il nostro tempo si riduca. Spostamenti, relazioni, burocrazia lo riducono, tuttavia nuove forme organizzative (es. lo smart work) e tecniche (skype per fare un altro esempio) aumentano il nostro tempo e riducono gli spostamenti.
Queste soluzioni non hanno un costo significativo e nemmeno producono un reddito economico ma generano indiscutibilmente un elevato valore: liberano tempo.
Qualcuno potrebbe proporre allora di intervenire sul valore aggiunto delle tecnologie per tassarlo e quindi tradurlo attraverso il welfare state in maggiori servizi a tutela degli esclusi. E su questo torniamo alle tesi della redistribuzione in termini di ricchezza, reddito e quindi dell’economia tradizionale. Così però perdiamo di vista il vero beneficio in termini di valore, che non è in sé solo economico, anzi lo è limitatamente.
Non si tratta poi solo di generare e individuare valore ma anche di liberarlo.
Storicamente il vantaggio dell’informatica è stato fagocitato dall’aumento della burocrazia. Se non avessimo burocrazia, probabilmente il progresso informatico sarebbe un beneficio comune molto più significativo, molto più di quanto non possiamo riconoscergli oggi. Forse i big data possono ridare a quell’evoluzione il valore che la burocrazia e l’inefficienza organizzativa hanno attenuato o annullato.
Se semplifichiamo le regole, i comportamenti elusivi e difformi saranno più evidenti e i big data li individueranno molto più efficacemente della Guardia di Finanza.
Allora se un processo di questo tipo libererà milioni di persone dal lavoro improduttivo (inutile) e aumenterà il valore sociale, non possiamo vederlo nel suo aspetto più positivo di liberare il tempo improduttivo (talvolta alienante) per aumentare l’attenzione su azioni più utili? Non solo, è indubbio che il valore sociale aumenterà.
Spesso riteniamo che il valore si misuri sull’accumulo e non consideriamo invece il valore del risparmio, che ha un impatto di uguale valore. Valgono di più dieci euro guadagnate o dieci euro risparmiate? Vale di più una buona idea o una buona azione gratuita volontaria o un’ora a zappare la terra o a falciare il grano?
L’economia di oggi potrebbe dirci che il falciare il grano vale di più di un’ora di volontariato, perché e in quanto retribuito (anche se ormai sono attività poco o pochissimo retribuite in angoli dimenticati dell’estremo oriente). L’attività di volontariato – per rimanere all’esempio – non ha un valore economico ma aggiunge valore alla società. Non solo, la società è in debito nei confronti del volontario per quel valore che le è stato aggiunto. E questo valore è il delta che spiega perché siamo sopravvissuti a una crisi veramente pesante e lunga. Spiega, in particolare, perché l’Italia ha retto alla crisi.
Questo scompenso di valore ha bisogno di ritrovare equilibrio in un sistema nuovo, dove il valore economico è una delle monete di scambio – forse la più importante – ma non l’unica.
Per non generare equivoci, questo non significa che il lavoro volontario vada pagato. Semmai l’opposto: che il disoccupato, lo svantaggiato, il cittadino in difficoltà economica non abbia reddito ma non abbia costi, chiedendo al beneficiario uno sforzo condizionale.
La sostenibilità di un sistema di welfare avanzato si gioca tutta sul valore complessivo, tenuto appunto in equilibrio da questa accezione che comprende sia il valore aggiunto generato in termini economici ma anche i beni comuni e il valore sociale.
Non solo, se pensiamo al ruolo dello Stato nel sistema sussidiario, oltre all’erogazione di alcuni servizi che preservano i beni comuni di salute, istruzione e sicurezza, l’aspetto della regolamentazione e della giustizia rimane centrale mentre perde importanza il significato del controllo, o meglio, si smaterializza.
Se consideriamo il risparmio per i conti pubblici ma anche per cittadini e imprese rispetto al tema amministrativo e fiscale nel caso della completa sburocratizzazione e dell’utilizzo di tecnologie e big data, ci rendiamo conto di quante risorse si liberino complessivamente. Considerando che il contrasto tradizionale a evasione ed elusione, con strumenti tradizionali sta diventando sempre più difficile.
Come sistema nazionale, l’Italia può giocare in questo scenario diversi punti di forza: la ricchezza qualitativa e quantitiva del modo associativo, del volontariato, del terzo settore, della coesione familiare e la sussidiarietà privata.
La presenza significativa di beni comuni è un altro vantaggio indiscutibile che rappresenta anche un patrimonio di interesse attrattivo per il resto del mondo: un genius loci immateriale difficile da riassumere in una formula. Eppure, se si guardano le iscrizioni nelle accademie di belle arti italiane, si ha l’impressione che qualcuno cerchi di rubarne il segreto. Forse creatività e cultura saranno i beni primari nel futuro.
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