“La scuola? È solo un modo come un altro per tenerci chiusi in un posto sicuro e impedire che combiniamo guai. I professori non sono nient’altro che i nostri custodi. Se ci insegnano qualcosa, è per caso, o per sbaglio, un effetto collaterale. Lei ha idea, preside, di come potrebbe essere utilizzato il tempo che trascorriamo qui dentro?”
Questa provocazione paradossale di Arbus, il genio della classe, personaggio del romanzo La scuola cattolica di Albinati, ci mette di fronte a una domanda importante che segue una visione della scuola, che personalmente non condivido, ma che può, anche e talvolta, essere vera.
La domanda è infinitamente più interessante della premessa. La premessa tuttavia tocca due elementi essenziali: la cura e l’insegnamento.
Quale sia il rapporto di priorità, la misura, l’interesse che insegnanti e genitori riconoscono a questi, determina il significato sociale di questa istituzione.
Se giriamo l’obiettivo verso i ragazzi (che sono anche bambini e poi giovani adulti), il senso della scuola può essere ancora più difficile da individuare, sia per quello che è che per quello che dovrebbe essere.
Oggettivamente, quello che possiamo osservare è la dimensione incredibile di questo fenomeno “sociale”: milioni di ragazzi, un milione di insegnati, diverse decine di miliardi di spesa pubblica in un tempo incredibilmente ampio e indeterminato (da 11 a 20 anni della vita di ciascun cittadino).
Se pensiamo alla finalità della scuola. Se chiediamo ai suoi protagonisti di esprimersi sulla finalità della scuola. Se dovessimo osservare i loro comportamenti per dedurne la finalità, ci sarebbe sintonia tra ciò che pensano i genitori, gli insegnanti e gli studenti?
E se volgessimo la nostra attenzione al mondo – al mondo degli adulti – potremmo dire che questa gigantesca istituzione, che “prepara” al mondo adulto, è adeguata… è funzionale rispetto al compito?
Se la nostra risposta è no, la domanda di Arbus, al di là delle esagerazioni, rimane: come potrebbe essere utilizzato il tempo che trascorriamo qui dentro?
Dall’esperienza di questi anni, in cui ho lavorato con la scuola, ho potuto constatare come quel mondo costituito di regole e di persone sia chiuso in se stesso. Di come gli insegnati siano i veri protagonisti e anche gestori di quegli spazi, di quel tempo, di quel compito – non ben definito – che si accompagna al crescere. E questa dimensione immensa di tempo e di persone rischia di essere il vero limite entro il quale si muovono indistintamente eccellenza e insipienza (ed ho scelto questo termine con attenzione).
Quando il mondo fuori cambia, anche questo cosmo interno deve trovare il proprio modo di evolvere. Essendo un’istituzione, si potrebbe dire che la via maestra sia quella di definire nuove regole. Tuttavia una stagione, ormai lunghissima, di riforme della scuola ha indicato come la scuola sia impossibile da riformare, perché il suo elemento più coeso e forte, anche se numericamente minoritario, è quello del popolo degli insegnanti. Un milione di votanti con famiglie, capace di spostare gli equilibri politici e quindi che deve essere “coccolato”.
Allora quali sono le strade? Piccoli interventi? Grandi investimenti? Un rilancio in grande stile? Premiando eccellenze e merito? Ma ci crediamo veramente?
Oppure puntare sulla maggioranza silenziosa dei genitori, che opera solo, oppure talvolta, chiamando il giornale ovvero presentandosi da preside con l’avvocato, per lo più a sproposito, per contestare un provvedimento o una decisione singola?
Forse puntando sulla “maturità”, sulla consapevolezza, sulla chiarezza e ingenuità dei giovani studenti? Sulla loro voglia di futuro? Sul loro numero? Sulle loro voci rumorose? Sulla loro incredibile “naivité”?
Qualche idea ce l’avrei… qualche idea dovremo pure tirarla fuori.
Quindi?
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